The Getaway, la fuga da loro stessi

The Getaway, la fuga da loro stessi

The Getaway è l’ultimo lavoro dei miei cari Red Hot Chili Peppers. Con loro ho un rapporto di odio-amore da quando Frusciante se n’è uscito per sempre dal gruppo, ma tuttavia non sono mai riuscita a scollarli dalla top delle mie band preferite di sempre.

Il 17 Giugno 2016 è uscito The Getaway, prodotto da Danger Mouse, che per chi non ha idea di chi fosse, si è occupato di artisti come Gorillaz, Black Keys, Norah Jones e Beck ed è anche un musicista anche se non ho ancora capito bene cosa suona, per fortuna che esiste Wikipedia: voce, tastiera, organo, chitarra, basso, batteria e sintetizzatore, alla faccia sua.

Se vi ricordate, e siete stati abituati ad un Rick Rubin alla produzione, come in I’m with you del 2011, cancellate tutto quello che avete in lavagna, e in fretta. Quest’ultimo non ha nulla a che vedere con tutto ciò che è successo prima, e forse potrete addirittura tornare a sorridere dopo quel tacchino ripieno che resta sullo stomaco di I’m with you, il lavoro che ogni rock star in declino aspirerebbe prima di ritirarsi forever nella vergogna di aver lasciato il pubblico coi sassi in bocca. Ma ho sempre pensato che fosse la loro giusta fine, peccato per quel giovincello allora appena arrivato di Josh Klinghoffer, che nonostante non capissi in pieno il suo stile alternative ed etereo, mi piaceva. Ed era bravo forte.

Ma per fortuna nessuno può abbattere quei mattacchioni! E quindi eccoli dopo 5 anni, oso dire, resuscitati. Certo, qualcosa è andato storto in questo processo di resurrezione, lo voglio dire subito così i rockettari tornano ad ascoltarsi gli ACDC e non sprecano tempo prezioso.

The Getaway non è un disco rock, né funky, né indie. È un disco adatto ai nostri tempi, con singoli perfetti per finire sulle radio, nei centri commerciali e nei baretti in centro città. È un disco per chi non ha tempo di ascoltare, da far partire mentre fai altro, mentre prepari una torta, o per chi è più sportivo, mentre vai a correre.

È un disco facile e azzeccato, pieno di idee riciclate o rubacchiate. I primi due pezzi sono i primi singoli che sono usciti e in particolare “Dark Necessities” ha scalato le classifiche in Italia e ci ha regalato quel video piuttosto osceno che se non lo guardate non vi perdete nulla, però Josh è davvero carino. A mio parere la scelta di questo singolo è stato azzeccatissimo, anche se non capisco perchè all’inizio gli stessi red hot non volevano definirlo tale (forse impauriti di come il pubblico potesse recepire questo cambiamento?); in ogni caso io lo trovo piuttosto bruttino, senza sostanza, senza idee, con una linea di basso similissima a Can’t stop e con Chad e Josh praticamente inesistenti e un Kiedis che sovrasta tutto con una voce effettata. Per non parlare del ritornello blando e del bridge orribile di pianoforte, solo verso la fine un timido Josh inizia a sentirsi e a farsi valere. Dicono che se l’ascolti molte e molte volte poi ti assuefi e inizia quasi a piacerti.

La primissima traccia invece è l’omonima del disco, non molto distante da Dark Necessities, Chad è diventato una drum machine ma ormai siamo entrati nel mood giusto e quindi ci piace, il ritornello inesistente fa sì che Kiedis non inizi a lagnarsi troppo, tutto sommato, colonna sonora per un sex on the beach delle 18 al baretto sotto casa.

We turn red è la terza traccia e ricorda molto lo stile delle B-side di Californication, ha una chitarra molto ruvida che quasi ti prende bene, ma il ritornello arriva in fretta e ti fa cascare, braccia, gambe e qualcos’altro che non ho l’onore di avere essendo femmina. Ma poi ecco la luce in fondo al tunnel, “The Longest Wave” probabilmente scritta da Kiedis mentre veniva ribaltato dalla tavola surf sulle coste californiane da un simil tsunami, appunto, the longest wave of his life. L’arpeggio di chitarra iniziale è bellissimo e ogni vola che lo ascolto, mi sembra che appaia John fattone che annuisce. L’anima della stratocaster di Josh inizia la danza di una sirena, ma ahimè non regge a lungo, ed è inutile dire cosa succede con il ritornello di Kiedis.

“Goodbye Angels” è sicuramente tra le più belle del disco e forse è la più redhottiana, ha un laccetto debole e quasi impercettibile con I’m with you, nel quale Athony già cantava vocali e dittonghi per riempire battute lasciate senza testo (vedi Ethiopia), che si dilunga fino al “lontano” Californication delle sonorità calde e violente. E così dopo un ultimo “eio eio eio eio” parte un basso slappato che facciamo finta non ricordare “Nobody weird like me” per non accusare Flea di troppo riciclaggio di idee, ma che comunque resta efficace. È potente, è una coda bellissima in crescendo, quasi emozionante al pari di quella di Death of a Martian, peccato per quella battuta in cui Flea sceglie di silenziare il basso per soffiarsi il naso.

“Sick Love” vede la partecipazione di Elton John al pianoforte e sembra una canzone dei Maroon Five, mi fermo qui per non esagerare nella cattiveria. La seguente “Go Robot” non è una brutta canzone, ma non è nemmeno bella; ha molti elementi dance e new wave anni ’80 e potrebbe rimpiazzare degnamente “Pressure Off” dei Duran Duran nella pubblicità di qualche compagnia telefonica. Tuttavia ha degli stacchi davvero piacevoli, credo siano synth suonati da Mouse, e la fine anche di questa canzone mi ricorda stilisticamente una stadiumarcadianata (dovrebbero darmi una medaglia per questo termine). “Feasting on the flowers”, “The Hunter” e “Dreams of samurai” sono tre pezzi che non mi dicono assolutamente nulla, sembrano destinati ad essere dimenticati e rimossi dalla memoria gente, probabilmente mai verranno suonati live; FOTF è piuttosto pesante con delle coriste anonime e eccessive, la seconda è molto da Coldplay ed è una palla stratosferica, il sogno del samurai (ultima traccia del disco) è una b-side interminabile. Per fortuna che in mezzo a queste tre qualcosa di salvabile c’è ancora: “Detroit” ha una chitarra troppo da Jack White degli ultimi tempi e ciò è positivo se ci dimentichiamo per un secondo di star parlando di Red Hot Chili Peppers con oltre 30 anni di carriera alle spalle, Kiedis continua a cantare che è una lagna ma ormai ci abbiamo fatto il callo. “This Ticonderoga” ha un riff di chitarra graffiante e anche questo mi ricorda qualcosa di già sentito nell’ambito indie rock, poteva essere più carina nell’insieme se non partiva quel pianoforte da cabaret che non c’entra assolutamente un fico secco con una chitarra quasi punk.

“Encore” è l’undicesima traccia ed è nata da una Jam che suonavano spesso durante lo scorso ed è piuttosto sognante, tuttavia resta una ballatona mediocre con un cantato metà alla “if” e metà alla Take That con Robbie Williams (brrr), con echi alla chitarra che mi ricordano vagamente i pezzi più onirici di Sting solista. Che bella marmellata che ho fatto, eh? Dopo aver scritto tutto ciò con molto divertimento, ora dico solo questo: abbiate coraggio, non abbiate pretese. Nel 2016 i peperoncini non potevano far meglio che essere imboccati in questo modo da un produttore pop per riprendere un po’ di dignità persa con quel barbone di Rubin, e tale scelta credo sia stata anche piuttosto obbligata. Ho solo paura a chiedermi quanta farina del loro sacco ci sia in questo disco. Passo e chiudo.

 

Link per l’ascolto: https://open.spotify.com/album/43otFXrY0bgaq5fB3GrZj6